Il Marketing Conversazionale secondo Chris Messina

20 Ottobre 2020Tempo lettura: 9 min.

Chris Messina ha rivoluzionato il mondo digital inventando l’hashtag ed è stato tra i primissimi teorizzatori del Marketing Conversazionale. Il 30 novembre sarà sul palco di MailUp Marketing Conference: nel frattempo, gli abbiamo chiesto un parere sui trend futuri del digital.

Chris Messina ha passato l’ultimo decennio all’avanguardia della tecnologia. Ha disegnato prodotti ed esperienze per Google ed Uber, fondato startup e cambiato il mondo regalando alcune delle sue invenzioni, tra cui l’hashtag.

È stato tra i primissimi teorizzatori del Marketing Conversazionale, e proprio di questo parlerà sul palco di MailUp Marketing Conference, il prossimo 30 novembre. Nel suo intervento, Welcome to the age of Conversational Computing, Chris ci dirà la sua su cosa vuol dire fare marketing nell’era dell’intelligenza artificiale, della personalizzazione e della voice search.

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In attesa dell’evento, abbiamo colto l’occasione per fare due chiacchiere con lui sul futuro del marketing e sulle sfide che attendono le aziende nell’affrontare l’approccio conversazionale. In più abbiamo finalmente avuto risposta alla nostra curiosità: come è nata l’idea dell’hashtag?

Il Marketing Conversazionale secondo Chris Messina

In che modo, secondo te, il Marketing Conversazionale sta cambiando la natura stessa del marketing?

Per la maggior parte del XX secolo, le strategie di marketing e di advertising hanno utilizzato un modello di broadcast uno-a-molti. Mass media come radio, cartellonistica e TV rendevano facile creare un messaggio che andasse a colpire l’intera popolazione con il medesimo concetto. La tattica vincente puntava sul ripetere, ripetere, ripetere.

Internet ha sovvertito questo paradigma, offrendo canali nuovi e più personali che supportassero conversazioni molti-a-molti e uno-a-uno. Nell’ultimo decennio, grazie all’ampia adozione dei device mobili prevalentemente per scopi di messaggistica e gioco, le aspettative dei consumatori nei confronti dei brand e delle aziende hanno iniziato ad evolvere, richiedendo la personalizzazione, la velocità e l’ubiquità che normalmente vengono garantite nelle conversazioni con amici e famigliari.

È molto facile pensare che questo sia meramente un problema di customer care – eppure il servizio sta diventando sempre più indistinguibile dall’esperienza stessa del prodotto.

Ad esempio, nell’acquistare un prodotto Apple l’utente è supportato dal Genius Bar, che è un’estensione dell’esperienza di prodotto e non un add-on separato. Addirittura, esistono funzionalità integrate nel sistema operativo che aiutano l’utente ad accedere alle risorse di supporto messe a disposizione da Apple.

Non bisognerebbe più pensare al servizio clienti come a un mero centro di costo da ridurre al minimo, perché si tratta sempre di più di una componente fondamentale di una relazione di successo con il cliente. Ed è proprio la forza e la profondità di queste relazioni che determinano quali brand sopravviveranno, avranno successo oppure moriranno nell’era incipiente del conversational computing.

Qual è la prima cosa che le aziende dovrebbero fare nell’avvicinarsi al mondo della conversazione?

Il marketing conversazionale richiede un approccio attento al modo in cui si costruiscono relazioni con i clienti attraverso fiducia, trasparenza e reciprocità. Questo implica che si debba ripensare completamente il modo in cui si costruiscono le aziende, dando il massimo rilievo a user-centricity, empatia, chiarezza, trasparenza nelle comunicazioni e ascolto attivo.

L’organizzazione dovrebbe anche supportare la diversità e l’inclusione a tutti i livelli aziendali. Questo è ancora più vero nell’universo del voice computing, guidato dall’intento di ricerca. Il focus non è più sulle applicazioni che sai creare ma sui compiti che sai portare a termine, sulla qualità del risultato e sul fatto che l’utente si ricordi il nome del brand.

Nel mondo delle ricerche vocali, se il brand non viene in mente immediatamente e non sa offrire valore reale, è a tutti gli effetti morto.

Come si riesce a far questo? Purtroppo non esiste una formula magica. Tuttavia la mia esperienza in Uber (uno dei primissimi modelli di “brand conversazionale”) mi porta a dare questi consigli:

  • Dare massima chiarezza alla value proposition, espressa nel linguaggio dei clienti stessi
  • Comprendere dove sono attive le conversazioni degli utenti (quali sono i contesti dove si aspettano di trovarti, e dove tu ancora non sei?)
  • Chiarire l’offerta utilizziamo il framework dei Jobs to Be Done, teorizzato da Christian Claytonson, e sviluppare una strategia di prodotto che soddisfi esigenze specifiche all’interno di campi, contesti e canali specifici.

Occorre poi utilizzare questi dati per dar forma a una strategia di creazione di servizi conversazionali personalizzati, in grado di fornire utilità, significato, soddisfazione e customer delight. Si può iniziare da zero oppure migliorare l’offerta esistente – assicurandosi sempre di validarla più e più volte con utenti reali.

Chris Messina

Al contrario, qual è la trappola più pericolosa?

Avverto spesso molta riluttanza nei miei interlocutori quando suggerisco che i brand e le aziende prestino maggior attenzione alla creazione della relazione con i propri clienti. Sembra che il livello dell’esperienza generale sia talmente basso che si preferisce lasciar perdere in partenza. Questo è uno dei motivi per cui, a mio parere, la relazione è più importante della vendita in sé (ho parlato per la prima volta di conversational commerce nel 2016).

Se le aziende non mirano a un risultato radicalmente differente (ovvero costruire una relazione), il grosso rischio è che risultino goffe, grossolane o semplicemente inefficaci, dal momento che le aspettative e le regole d’ingaggio nel nuovo ambiente conversazionale sono più alte e spietate rispetto all’era precedente.

Un tempo, era normale aspettarsi che l’utente compisse numerose azioni per esprimere i propri bisogni o che navigasse il sito web in lungo e in largo. Il servizio clienti era visto come l’ultima spiaggia, tipicamente perché ottenere supporto effettivo era difficile e complicato. Oggi le persone sono costantemente indaffarate, l’attention span è diventato più corto di quello di un pesce rosso, e al tempo stesso le scelte si sono moltiplicate.

Gli utenti sono viziati, e i brand stanno iniziando a comprendere che l’asticella della competizione si è spostata nell’ambito della creazione dell’esperienza utente.

La cosa peggiore da fare è continuare a fare quello che si è fatto finora (a meno che il brand non sia già del tutto user-centric e abbia già stabilito relazioni profonde e significative con ciascun utente!) e aspettarsi gli stessi risultati. Siamo sulla soglia di una nuova era, dove le vecchie regole non valgono più.

La tua carriera è stata ricchissima. Hai sviluppato idee ed esperienze che hanno cambiato la vita digitale (ma non solo) di moltissime persone. Questo come ti fa sentire?

Molte delle idee che ho sviluppato e reso disponibili al mondo sono state accolte con grande favore, aiutando tante persone a utilizzare la tecnologia in modo più efficace e (spero) utile all’umanità. Questo mi fa sentire molto, molto fortunato.

Naturalmente, ho scelto di entrare nel mondo del design e della tecnologia web in un momento storico particolarmente raro, in cui il diritto libero (inteso come open source) stava prendendo piede e Facebook o l’iPhone non avevano ancora permeato la nostra cultura.

L’obiettivo di gran parte della mia carriera è stato rendere disponibili le mie idee in modo che fossero di utilità a un vasto numero di persone, esattamente come io ho avuto la fortuna di emergere collaborando con il progetto open source di Mozilla (poi Firefox) nel 2004. Sono orgoglioso del successo che ho ottenuto, e onorato dell’impatto che molte delle mie idee hanno avuto.

Dove è nata l’idea dell’hashtag, di cui sei inventore? E come è successo che diventasse così rivoluzionaria?

Nel 2006 nacque Twitter, e un anno prima l’iPhone. I primi utenti di Twitter pubblicavano i loro aggiornamenti tramite SMS, da cui deriva il classico limite dei 140 caratteri per post. Tanti utenti esprimevano il bisogno di utilizzare Twitter in modo più rilevante, ma le proposte si aggiravano per lo più attorno alla creazione di farraginosi gruppi in stile forum.

Io avevo già capito che Twitter stava diventando un fenomeno mobile, e realizzai che il modo più semplice per etichettare singoli tweet poteva essere l’aggiunta di un tag con il simbolo del cancelletto (#).

Perché proprio questo simbolo? Perché la maggior parte dei telefoni, all’epoca, aveva ancora le tastiere numeriche di plastica, con due tasti che venivano utilizzati di rado – * e #. Nelle chat su internet (IRC), i nomi dei canali avevano il cancelletto come prefisso, quindi mi sembrò una buona idea fondere queste due idee. Da qui nacque la mia proposta originale di chiamare gli hashtag “tag channels”.

Di contro al compito ingrato di amministrare un forum, gli hashtag erano democratici ed effimeri. Chiunque poteva partecipare, e non serviva avere il permesso di alcun admin. Non implicavano nemmeno chissà che cambiamento di abitudini: bastava semplicemente postare il tweet aggiungendo il tag con il simbolo del cancelletto, e altri avrebbero fatto lo stesso o si sarebbero uniti alla conversazione.

Fu un’idea incredibilmente semplice che ben si sposò con la tecnologia dell’epoca. Ovviamente, la vera sfida fu convincere tutti a seguire il mio esempio e a fare quello che facevo io – ma questa è un’altra storia.

Cosa vedi nel futuro del digitale, e nel tuo futuro personale?

Ho già accennato al fatto che sono affascinato dalle relazioni, siano esse tra persona e persona oppure tra la persona e la tecnologia che ciascuno sceglie di incorporare nella propria vita quotidiana. Viviamo in un periodo estremamente confuso e denso di sfide: credo che favorire reciprocità e relazioni positive sia di fondamentale importanza nell’aiutare l’umanità ad unirsi e ad affrontare la crisi che ci attende dietro l’angolo.

Cerchiamo ogni giorno nuove risposte sul modo in cui ci rapportiamo al mondo e al resto dell’umanità, e mi piace pensare che la tecnologia possa facilitare, velocizzare e approfondire la comprensione reciproca. Questo, tuttavia, non accadrà mai senza il nostro contributo attivo. Dobbiamo far sì che la tecnologia aiuti la costruzione di relazioni migliori – ed è su questo che sono concentrato al momento.

Chi è Chris Messina?

Chris Messina ha competenze differenziate, ancorate del design prodotto e nella UX. Ha guidato la developer experience di Uber e co-fondato Molly (YC W’18), un sistema di intelligenza artificiale conversazionale. Chris ha creato movimenti online e offline, fungendo da agente catalizzatore di cambiamento per aziende grandi e piccole.

Nel 2004 è stato tra gli organizzatori del movimento che portò ai primi 100 milioni di download di Mozilla Firefox. Nel 2005 è stato tra i co-organizzatori del primo BarCamp, il format di “unconference” poi replicato in oltre 350 città in tutto il mondo. Nel 2006 ha aperto il primo spazio di co-working a San Francisco, dando il via a un fenomeno globale.

Nel 2007 ha portato in Twitter l’idea dell’hashtag, cambiando definitivamente il mondo dei social media e dando un potente strumento alle rivoluzioni sociali in tutto il mondo. È stato speaker a conferenze come SXSW, Web 2.0 Expo, Google |/0 e Microsoft’s Future Decoded. È frequentemente ospite di testate come The New York Times, Business Week, LA Times, Washington Post e Wired.

Sarà ospite d’eccezione a MailUp Marketing Conference, il 30 novembre a Milano, a Palazzo Mezzanotte. Se non hai ancora acquistato il tuo pass per l’evento, è il momento di farlo!

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Questo articolo è stato scritto da

Maria Giulia Ganassini

Maria Giulia Ganassini

Creo contenuti che raccontino l'email marketing e le sue strategie in modo semplice, utile e interessante per tutti, da chi è alle prime armi agli esperti. L'obiettivo è svelare il mondo complesso e articolato che si cela dietro ogni bottone "invia". Credo negli orizzonti aperti e nella curiosità costante.

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